domenica 27 marzo 2011

Non è dalla legge che si ottiene giustizia

Pochi giorni fa la Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo ha emanato una sentenza che assolve lo stato italiano da ogni accusa riguardo alla morte di Carlo Giuliani, il 20 luglio2001, durante le manifestazioni contro il G8, a Genova. La reazione, tra le persone che amano la memoria di Carlo, e che hanno manifestato con lui e con altre 300.000 persone, in quei giorni, nel capoluogo ligure, non è stata unanime. Certo, tutti pensiamo che lo stato italiano sia colpevole della morte di Carlo; e tutti sappiamo che la polizia e la magistratura hanno fatto ogni cosa per insabbiare la verità, dall’accusa immediata a un altro manifestante di averlo ucciso tirando una pietra ad incidenti probatori ridicoli, in cui si è parlato di un colpo sparato in aria dal carabiniere Mario Placanica, deviato verso il volto di Carlo da una pietra che “sorvolava” la zona. Eppure soltanto alcuni hanno reagito con rabbia, indignazione, costernazione; altri, invece, hanno reagito con indifferenza a questa sentenza, perché pensano che non avrebbe potuto essere diversa, e che – ancor più radicalmente – se fosse stata diversa non avrebbe potuto, comunque, rendere alcuna giustizia.
I telespettatori delle democrazie contemporanee sentono parlare di entità di cui, a ben vedere, in pochi sanno qualcosa: Tribunale dell’Aja, Alta Corte dei Diritti Umani, Tribunale per i Diritti Umani di Giacarta, ecc. Ma qual è il ruolo di queste istituzioni? I tribunali dei singoli paesi che siedono nel consesso delle Nazioni Unite (Italia e Arabia Saudita, Stati Uniti e Israele, Russia e Cina, Birmania e Ciad, e tutti gli altri) condannano ogni giorno milioni di persone nel mondo al carcere, ai lavori forzati, alla pena capitale, alla deportazione, alla tortura o alla lapidazione; le leggi in nome delle quali queste sentenze vengono emanate sono le più svariate, ispirate alle costituzioni più diverse, e i reati di cui gli imputati sono giudicati colpevoli vanno dallo stupro al furto, dalla manifestazione non autorizzata al massacro razziale, dalla corruzione politica all’espressione del proprio dissenso. Ciò che è reato in un paese è accettato in un altro, e non è un mistero che gli stati si contrappongano l’uno all’altro in nome della loro superiorità giuridica (l’essere democratici, o socialisti, o rispettosi di Dio, o frutto di rivoluzioni anticoloniali, ecc.). Il modo in cui l’ideologia statunitense ed europea dipinge la Cina o l’Iran non è diverso, per esempio, da quello in cui la Cina e l’Iran dipingono i paesi occidentali: come sempre, qui ci siamo noi, là ci sono i barbari.
Esistono tuttavia Dichiarazioni e Convenzioni (che hanno un valore giuridico più debole delle Costituzioni) che, dal 1948 in poi, sanciscono principi ideali aventi forza giuridica, almeno teoricamente, per tutti gli stati e per tutte le popolazioni. Il loro valore è considerato universale da chi le ha scritte e accettate, superiore ad ogni differenza ideologica, storica, culturale, ma il loro effetto concreto non può che determinarsi su quegli stati che le hanno sottoscritte. La Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo costituisce punto di riferimento delle sentenze della corte di Strasburgo. Molti pensano che tra i diritti umani sanciti da quella o da altre carte ci sia anche quello di non essere uccisi durante una manifestazione e, naturalmente, si sbagliano: come potrebbero degli stati che mantengono la loro sovranità anche grazie alla minaccia della repressione in caso di comportamenti illegali di massa e ribellioni, sottoscrivere carte che impediscono di soffocare una rivolta o una rivoluzione? Infatti l’art. 2, comma 3, della Convenzione Europea recita: “La morte non si considera inflitta in violazione di questo articolo quando risulta da un ricorso alla forza resosi assolutamente necessario […] per reprimere, in modo conforme alla legge, una sommossa o una insurrezione”. Serve a poco rilevare che la repressione deve essere “conforme alla legge”, perché la legge in questione è quella dei singoli stati, applicata dai giudici dei singoli stati, sulla base di indagini svolte dalle polizie dei singoli stati; e “assolutamente necessario” è un’espressione lasciata vaga apposta, affinché ogni stato la riempia con i suoi criteri (e le sue violenze).
Dei diritti umani, quindi, non fanno parte il diritto alla sommossa, all’insurrezione, alla rivoluzione. Non soltanto le manifestazioni di Genova e di Seattle, ma neanche quelle di Tunisi, del Cairo, di Bengasi, di Damasco e di Amman, nel momento in cui assumono la legittima forma dell’insurrezione sociale contro un ordine costituito insopportabile e ingiusto, sono illegali secondo il diritto (“umano”) internazionale. Certo si inseriranno in seconda battuta i calcoli politici dei gruppi di potere e delle nazioni o delle loro cordate, che forzeranno questa o quell’altra sentenza, in modo da sancire l’orrore di questo o quel governo, e poter muovere guerra: se Carlo avesse sfidato la violenza della polizia militare a Bengasi nel 2011, anziché a Genova nel 2001, c’è da credere che la sentenza sarebbe stata diversa. Ma, al di là di questo, è fondamentale comprendere che non è necessaria la forzatura del giudice o la pressione del singolo stato affinché chi lotta per la libertà sia condannata dalla legge ai più alti livelli, e chi contro di essa ha ucciso sia assolto. 
Ecco la ragione di una comprensibile indifferenza: perché la giustizia non arriverà mai né dalla legge, né dai tribunali, come spesso sanno meglio le persone comuni dei moralisti del movimento. Un’ideologia comoda e in fondo ipocrita vorrebbe che il mondo, in fondo, fosse già arrivato al traguardo, almeno sotto il profilo del diritto, e che fossero le singole società a non conformarsi pienamente ad esso. È il contrario: non soltanto le società esprimono molte cose che la legge non contempla e non comprende, ma è soltanto evitando di conformarsi ai dettati giuridici, alle prescrizioni degli stati e dei consessi internazionali, che si è liberi e si rende il futuro imprevedibile, come la Primavera Araba insegna. Senza contare che, se si dovesse celebrare un processo a Strasburgo o a Giacarta per ogni compagno o compagna ammazzati, o per ogni rivoltosa/o o perseguitata/o uccisi o torturati nel mondo, è chiaro che non si potrebbe procedere: le vittime sono in un solo giorno più numerose delle singole lettere dell’alfabeto nel testo della Convenzione. Soltanto ciò che è illegale per quei tribunali – una rivoluzione mondiale – potrà forse un giorno migliorare la situazione.
Si è celebrato questo processo perché una sommossa è avvenuta in Italia, nella civilissima Europa, all’inizio di questo millennio ancora indecifrabile, e il contenimento di quella sommossa non è stato abbastanza democratico secondo gli standard della rappresentazione che, di sé, ha il potere costituito in Occidente. Se i morti sono arabi, come in Palestina o in Iraq, o afghani o tunisini, nessuno di loro avrà l’onore di un simile processo: anzi saranno i “nostri ragazzi” ad essere beatificati se cadono sotto i colpi della loro resistenza e, se gli scampati alle pallottole delle proprie “forze di sicurezza” affolleranno Lampedusa in cerca di aiuto, non saranno che “clandestini”. La verità è che Carlo è caduto durante un atto di insubordinazione violenta di massa, agendo come parte di un sommovimento urbano consapevole, resistendo con i mezzi che aveva contro una minaccia della violenza e delle armi che ogni stato esibisce quando il dissenso invade le piazze. La sua morte ha rivelato l’ipocrisia nauseabonda delle democrazie occidentali, che vorrebbero confinare la rivolta, la morte e la sofferenza esclusivamente fuori dai propri confini; ed è proprio contro questo ordine mondiale, di cui una tale ipocrisia è frutto e presupposto al tempo stesso, che Carlo, come tutti noi, ha resistito. 
L’assoluzione dello stato italiano equivale a una condanna di Carlo e del movimento intero, di cui dobbiamo andare fieri: abbiamo praticato ciò che continuiamo a praticare, mettendo in discussione a partire dalle strade quell’ordine internazionale che l’economia e il diritto del presente incarnano; abbiamo costruito e praticato un dissenso che si è dato da sé le proprie regole, anche quando ciò che abbiamo fatto equivaleva a disobbedire agli ordini della polizia, dei carabinieri, di Bush e di Berlusconi. Superare questa sentenza con una scrollata di spalle esprime, in verità, un sentimento più avanzato di quello, pur comprensibilissimo, di un’indignazione che è, purtroppo, imparentata con l’ingenuità. Al consueto e giustissimo “Gli stati si autoassolvono” dovremo forse iniziare a sostituire in questa nuova fase – rivoluzione dopo rivoluzione – un impertinente: “Gli stati si autoassolvono. E allora?”




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