Ognuno di noi ha un'identità; di questo è sicuro, ma, non appena gli viene chiesto di definirla,tutte queste certezze svaniscono. Oltre ai dati anagrafici, cosa definisce chi sono? Il mio aspetto, i miei modi di fare, le tradizioni dei nonni forse, o magari la religione, la mia fede calcistica, una mia passione, l'attivismo politico?
Nessuna di queste, o, più esattamente, tutte.
La nostra identità non è monolitica e uniforme, composta da una sola, essenziale, verità da cui discendono necessariamente tutte le altre. È un insieme disordinato di appartenenze che possono gonfiarsi o farsi invece più piccole a seconda della rilevanza che il contesto e la volontà del singolo contribuiscono a determinare. Non essendo simile alla "ben rotonda verità" di Parmenide, immutabile e certa, il nostro essere si configura piuttosto come il "tutto scorre" eracliteo, un inarrestabile fluire di contaminazioni, un eterno divenire, in cui certo è possibile ritrovare un percorso, delle linee di influenza più rilevanti, che non potranno mai però assurgere a unica, immutabile componente. Nel momento in cui invece una singola appartenza viene definita, consapevolmente o meno, come unica possibile, accettabile e giusta, di fronte alle molteplicità che ci stanno attorno quotidiamente in un mondo così plurale non potranno che essere naturali la paura e la repulsione verso chi porta un messaggio culturale diverso dal proprio.
Gli impulsi razzisti e xenofobi che ne derivano si configurano però purtroppo come il migliore dei casi: in Norvegia in questi giorni un giovane uomo,un conservatore cattolico apparantemente ben adattato, ha compiuto un attentato con una bomba e in seguito ha sparato su una folla di giovani di un partito progressista facendo complessivamente un centinaio di vittime.
Facendo esercizio di astrazione rispetto alle cronache sempre più precise e rispetto a chi ha creduto che l'europa fosse di nuovo sotto attacco da parte degli islamici (sempre i soliti, unici, cattivi), la realtà si rivela ben più tragica di quella che si può immaginare vivano i familiari delle vittime.
Questo atto di intolleranza verso la diversità scosta infatti un poco la maschera ai nuovi razzismi, lontani certo da razzialismi scientifici, biologici o tassonomici rispetto al genere umano, ma, proprio per questo più pericolosi e spaventosi. Si crede infatti che il razzismo sia stato sconfitto con il processo di Norimberga ai criminali nazisti responsabili dell'Olocausto o con la scoperte scientifiche e ci si limita di conseguenza a vivere l'antirazzismo come una funzione rituale, un'indignazione retrospettiva, un anatema commemorativo che progressivamente scema vista la mancanza di nuovi Hitler o Gobineau da contrastare. Gli antirazzisti devono invece accettare di aprire gli occhi,malgrado sia faticoso accettare di mettere in gioco se stessi, e riappropriarsi delle parole che oggi riempiono le bocche dei nuovi razzisti: tolleranza, cultura e diversità. I loro discorsi non sono più violenti come prima della seconda guerra mondiale, non parlano più di inferiorità, ma di differenza tra culture. Un termine neutro, persino condivisibile. Chi potrebbe d'altronde negare che alcune manifestazioni culturali di realtà umane diverse siano dissimili? Il vero nodo del razzismo identitario, apparentemente tollerante verso la differenza, è celato dietro questa "differenza": si ritene quest'ultima espressione di caratteristiche immutabili delle strutture culturali dei diversi popoli che, pertanto, devono vivere separati. La stigmatizzazione, la discriminazione e l'esclusione possono così esssere praticate in nome di valori come il rispetto dell'altro, la tolleranza, il diritto alla differenza. Il sotterfugio della "rispettabilità culturale" strumentalizza le nobili parole che sfrutta per eludere il rifiuto del razzialismo ( razzismo scientifico e biologico) e esaltare invece le identità locali, iccomensurabilmente differenti, impossibili da contaminare, da proteggere secondo il credo "ognuno a casa popria". Impossibile non riconoscere in questo ragionamento gli stessi elemnti che hanno mosso la mano di questo consrvatore cattolico, animato dalla volontà di costruire una "Norvegia migliore", senza islamici e senza chi si dichiara aperto al contatto con la diversità e di conseguenza disposto al cambiamento.
Come antirazzisti dobbiamo essere pronti e vigili, coscienti che la lotta contro il razzismo è più necessaria che mai, per smascherare ogni comportamento, attitudine, pensiero strutturati in questo modo, ma non solo. Non dobbiamo inoltre dimenticare le nefandezze che vengono compiuti nei lager di stato, i C.I.E. ( centri di identificazione e espulsione), dove vengono imprigionati migranti colpevoli solo di esistere, da riporatre nel loro paese dopo mesi e mesi di abusi, torture, vessazioni, talvolta strupri. Alieni da riportare da dove sono venuti, talvolta respingendo la loro navicella quando ancora è tra le onde, per impedire che possano esserci troppi immigrati, spaventandoci l'opinione pubblica parlando di invasioni di "proporzioni bibliche", di stranieri che rubano il lavoro, di minareti che non devono sorgere. (Sono i dati dell'emigrazione italiana, prima paese nel mondo per numeri di partenze: 27 milioni persone, a essere davvero biblici!!)
Denunciare certo, ma dobbiamo anche riappropiarci di parole come tolleranza, identità, cultura per ricollarle nell'ambito di una prospettiva interculturale, di continuo contatto con l'alterità, senza paura di esserne contaminati ma certi di esserne arricchiti. Non basta farlo con i discorsi: l'antirazzismo si pratica nelle scelte e nella socialità, accettando di ricercare e costruire spazi in cui mettere in gioco almeno alcune delle proprie certezze e di vederle sfumare in una dimensione più ampia e interculturale, senza per questo sentirsi meno "sé stessi", giacché siamo un eterno fluire, imperfetto, mutevole, ma davvero umano.
nella foto: prima pagina di "Il Giornale", quotidiano di destra, impegnato a diffamare il mondo arabo, etichettando l'attentato come un atto terroristico di Al Qaeda, come vendetta dopo la morte di Bin Laden.
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